Il richiamo

Era stato come un richiamo proveniente da un altra vita. Come se lo avesse già fatto e volesse rifarlo, dovesse rifarlo. Guardava stupito la piccola scacchiera e leggeva con attenzione le regole stampate sul retro. Non sembravano esageratamente complicate. La cosa che lo stupì in particolar modo fu che il re fosse così “debole”, infatti si poteva muovere solo di una casella. Bisognava proteggerlo, perché se moriva lui la partita era persa, scacco matto. Sì, sentiva forte quel richiamo, voleva giocare a scacchi, voleva penetrare e navigare in quel regno misterioso. Continuò a leggere le regole, scritte con un grigio un po’ sbiadito, e contemporaneamente già trafficava nel sacchetto di velluto contenente i piccoli bottoncini magnetici rappresentanti i pezzi. Ora guardava la figura stilizzata di un cavallo, sembrava quasi che impennasse, come nello stemma della Ferrari, pronto a saltare un ostacolo. E in effetti era l’unico pezzo che poteva saltare gli altri pezzi. Davvero curioso, elegante. Aveva capito quasi tutto, ma c’era la regola sulla presa en-passant che gli creava qualche difficoltà. La mamma era all’opera sui fornelli intenta a preparare la cena e, malgrado questo, sembrava aver notato le perplessità del giovane figlio Luca.

«Ti piace il regalo che ha pensato di farti papà?»

«Sì, non vedo l’ora di giocare la prima partita, ma c’è una regola che non capisco dice: Quando un pedone, muovendosi di due passi (quindi per la prima volta), finisce esattamente accanto (sulla stessa traversa e su colonna adiacente) ad un pedone avversario, nella mossa successiva quest’ultimo può catturarlo come se si fosse mosso di un passo solo.

«Ah» disse la mamma, continuando a rimestare la pentola e, malgrado pensasse che sarebbe stata in grado di spiegare la regola al figlio – facendo uso della scacchiera e dei pezzi – ritenne che se ne sarebbe potuto occupare il marito.

«Chiedi a papà, lui ha giocato da giovane, saprà sicuramente illuminarti sulla regola.»

Luca amava farsi spiegare le cose da papà, spiegava bene, e aveva pazienza – se era di buon umore -. Questo piccolo dettaglio lo fece avvicinare alla sua postazione timoroso come se fosse in procinto di accarezzare una belva feroce. Era al computer con la poltroncina completamente reclinata e le gambe poggiate sopra la scrivania. Le cuffie erano leggermente abbassate e il filo che la collegava passava pericolosamente sotto la gamba, con il rischio di essere stracciato via nel momento in cui avesse deciso di spostarsi da lì. Stava guardando un filmato su YouTube. Due tizi dalle braccia possenti si stavano sfidando a braccio di ferro. In effetti non era una novità. Da un po’ di tempo a quella parte, ogni volta che Luca passava vicino al computer dove suo padre stava dopo il lavoro, quest’ultimo stava guardando filmati di bestioni che aspiravano a diventare come Sylvester Stallone in Over the top.

«Guarda guarda Luca.»

Luca sussultò. Non immaginava che il padre si fosse reso conto della sua presenza.

«Lo vedi? Quello con la lunga barba rossa, a sinistra? Sembra che abbia vinto vero? L’altro è quasi tutto giù. Ma non è mai così semplice, bisogna saper dosare le proprie forze, è quasi come una partita a scacchi.»

Sarà anche come diceva Fabio, ma agli occhi di Luca quella era una situazione senza speranza. L’uomo con i capelli neri e la coda era totalmente passivo e subiva l’attacco dell’altro che si sarebbe detto essere un irlandese. E invece successe che l’irlandese bruciò tutte le sue energie senza riuscire a cavare un ragno da un buco e alla fine il compito per l’uomo dai capelli neri fu facile. Vinse, ribaltando la situazione in un attimo. Sotto gli occhi increduli di Luca e un po’ meno di Fabio (che non era la prima volta che guardava quel filmato).

«Veniamo a noi campione, volevi chiedermi qualcosa?»

Ah, bene, papà sembrava essere di buon umore, questo tranquillizzò Luca e lo predispose per porre la sua domanda.

Fabio si raddrizzò nella poltroncina e, nel portare le gambe a terra, stracciò il filo delle cuffie, come era d’altronde prevedibile e come non era la prima volta che accadeva.

Non era il tipo che quando accadevano cose del genere si limitava ad un “accidenti guarda un po’ che sbadato”, anzi diciamo che in genere si infuriava e incolpava qualcun altro di quello che era accaduto. Fissò Luca, gli occhi azzurri contornati da tanti capillari rossi e pulsanti. Luca abbassò lo sguardo. Stava già ripiegando su una soluzione alternativa. Tornare in camera e cercare la spiegazione della presa en passant su internet. Magari non l’avrebbe capita comunque, ma nessuno si sarebbe arrabbiato. Ma in quella occasione Fabio riuscì a dominarsi e proprio quando stava per affermare “Luca, quante volte ti ho detto di non disturbarmi quando sono al computer? Vedi cosa mi hai fatto combinare? Mi hai distratto!” ripiegò su:

«Giovanna dobbiamo comprare delle cuffie blue-tooth». Quel ‘dobbiamo comprare’ suonava più come un ‘perché non hai ancora comprato’ leggermente accusatorio e aggressivo, ma Giovanna lo conosceva, sapeva che poi gli sarebbe passato, e quindi non ribatté, lo lasciò cantare limitandosi ad un «Mm-mm sì tesoro» senza dare troppo peso alla cosa convinta che la frittata che stava preparando (con caciocavallo e riso) era di gran lunga più interessante e importante del quarto d’ora di suo marito. Anche Luca lo conosceva, ma non riusciva a stare tranquillo, era turbato e se ne stava filando mesto in camera pensando addirittura che in fondo avrebbe potuto giocare a scacchi anche senza conoscere la presa en passant.

Ma quasi come se il padre lo stesse leggendo nel pensiero, lo trattenne per la spalla e affermò:

«Allora come va con le regole? Hai capito la presa en passant?»

Non l’aveva capita. Allora il padre prese la piccola scacchiera che gli aveva regalato, dispose qualche pezzo sul tavolo e fece alcuni esempi, spiegando che cos’era la colonna e la traversa. Dopo qualche tentativo, Luca era davvero contento di conoscere tutte le regole degli scacchi ed era curioso di vedere cosa sarebbe potuto succedere durante una partita. Era entusiasta e provava il profondo desiderio di giocare una partita, una partita vera con tutte le regole giuste, la sua prima partita.

«Dai, dai papà, giochiamo, facciamo una partita.» Propose con slancio.

«E va bene, va bene dai, prendi i bianchi, tanto manca ancora un po’ prima di cena.»

Solo in quel momento Luca si rese conto che c’era una cosa che non aveva considerato in termini di ‘regolamento’ ossia quanto tempo avesse a disposizione per fare le sue mosse.

Quando domandò questa sua perplessità al padre egli rispose:

«Prenditi pure tutto il tempo che vuoi.»

La prima cosa che venne in mente a Luca quando trovò i due schieramenti fronteggiati uno di fronte all’altro, fu quella di cercare di attaccare il re nero con la regina protetta dall’alfiere. Avrebbe scoperto solo tempo dopo, quando avrebbe cominciato a leggere qualche libro di scacchi, che quella apertura – nota come matto del barbiere – non era particolarmente conveniente. Infatti l’idea di Luca di dare scacco matto molto velocemente ( quattro mosse) fallì ma la partita proseguì. Fabio rimase un po’ stupito che il figlio tentasse una cosa del genere già alla sua prima partita senza avere alcuna conoscenza pregressa di scacchi. Però si diceva anche che era solo un bambino di dodici anni e che non poteva che batterlo.

Per un po’ andò come entrambi si aspettavano. La posizione di Luca si fece via via più compressa e ad un certo punto dovette dare una torre per un cavallo. La posizione era però ancora complicata e Luca si prese tutto il tempo che gli occorreva (per una mossa addirittura quasi quindici minuti). E quando qualche mossa successiva Luca con una forchetta ( non sapeva ancora che si chiamava così) di cavallo costrinse Fabio alla patta, quest’ultimo si sentì quasi ferito nell’orgoglio. Si trattenne a stento ma era rosso in viso e gli occhi erano nuovamente iniettati di sangue.

«Ma dai, quindici minuti a mossa assurdo!» ebbe modo di reclamare.

Luca avrebbe voluto dire che erano stati quelli i patti e che la prossima volta avrebbero potuto usare un orologio. Ma stette zitto. L’avrebbe solo fatto infuriare di più. E in fondo non ce ne sarebbe stato bisogno.

Era seduto al parco, sulla panchina in marmo, davanti il tavolo con la scacchiera e i pezzi. A quell’ora non c’era molta gente disposta a giocare (sopratutto perché lui giocava a soldi, cinque euro a partita) ma sapeva che presto sarebbero arrivati. Magari i soliti, Roberto (l’aspirante hacker), Juri e forse Timoteo. Non capiva perché giocassero, visto che continuavano a perdere ma non ci voleva pensare. Poteva anche essere una loro opera di beneficenza. Chi se ne importa. Sapeva di puzzare un po’, ma cercava di non farci troppo caso. Avrebbe chiesto a Padre Mario un posto per una doccia e qualche vestito nuovo ma non voleva pensare nemmeno a questo. Prese il collo di bottiglia che sbucava dalla busta di carta marrone e buttò giù una sorsata di Jack Daniel’s. La sua medicina contro i fantasmi (sulla scacchiera e non solo) stava per finire. Poco male. Se il trio delle meraviglie si fosse presentato quel pomeriggio avrebbe raggranellato abbastanza da poterne comprare almeno due bottiglie. Tirò fuori dall’enorme tasca del suo cappotto un libro tascabile. Non era di scacchi. Era un libro di Bukowski. Gli sembrava di avere qualcosa in comune con il personaggio. Buttò giù un’altra sorsata e si rammaricò quando constatò che aveva finito la sua medicina. Forse aveva raschiato il fondo. Era da tempo che lo pensava. Anche Timoteo gliel’aveva detto. Trovati un lavoro, una moglie. Ma non ne voleva sapere. Era come se ci fosse un blocco psicologico. Qualcosa che gli impedisse di progredire naturalmente. Dall’altra tasca tirò fuori un panino (un po’ duro, del giorno precedente) lo addentò e tirò delle briciole ai piccioni che si riunirono freneticamente a banchettare. (Diventiamo grandi quando cominciamo a battere papà a scacchi. Diventiamo adulti il giorno che lo lasciamo vincere).
Chi glielo aveva detto? E perché quel pensiero periodicamente si riproponeva in maniera così invasiva? Non ne aveva idea. E certo alcolizzarsi non aiutava a ricordare frasi dette da chissà chi chissà dove. In ogni caso non serviva essere degli psicoanalisti o avere chissà quale capacità di interpretazione per comprendere che quelle due frasi si riproponevano come un monito. Ci aveva giocato solo una volta con papà. Dopo quella partita, dove non vi era stato nessun vincitore – anche se forse lui era stato quello morale – papà aveva sempre gentilmente declinato i suoi inviti ad avventurarsi in un epica battaglia sulla scacchiera. «Sono stanco, ho lavorato tutto il giorno, vinceresti tu» si limitava a dire. Luca si accarezzava la lunga barba nera e incolta, dalla guancia al mento mentre ripescava – da chissà quale anfratto della memoria- questo spiacevole ricordo. Spiacevole quasi quanto un rifiuto amoroso. Papà non voleva più giocare con lui perché pensava troppo a lungo e rendeva il gioco noioso. Questo si era inciso nell’inconscio di Luca. E quando arrivò Roberto, portando a passeggio il cane, e si fermò per la consueta partitella con scommessa, si capì dal gioco di Luca quanto il suo desiderio più profondo non fosse giocare bene ma giocare le mosse impiegando meno tempo possibile. Giocavano con tre minuti a testa per tutta la partita. Quando il gioco terminava Luca aveva consumato al massimo trenta secondi. Era un fulmine. Qualcuno vociferava che aveva il talento per fare degli scacchi una professione – se solo si fosse dato un minimo di disciplina e avesse smesso di bere- ma a lui non era mai interessato, cercava altro. Quasi una redenzione, una seconda possibilità. Alla terza partita Roberto si era stufato di prenderle e stava alzando i tacchi per dirigersi probabilmente a casa per guardare qualche serie tv su Netflix. Ma quell’uomo così trasandato seppur talentuoso, gli faceva quasi compassione e voleva aiutarlo in qualche modo.

«Ti servono dei soldi?»

«Mi bastano quelli che ti ho vinto, grazie»

«Ahah che sbruffone! Senti conosco una persona, uno psicoanalista molto bravo, potrebbe aiutarti. Sei una persona con delle doti da valorizzare, puoi vivere meglio di come vivi ora.»

«Non ho bisogno di nessun psicoanalista» e mentre si alzava per buttare la bottiglia di Jack Daniel’s – ormai vuota – dentro il cestino dei rifiuti, aggiunse «Ho bisogno di una bottiglia di questa, o di grappa barricata in alternativa, come dicono? Su i bicchieri giù i pensieri! Ecco cosa mi serve. Io sto benissimo così.»

Se Luca fosse stato per Roberto un conoscente o anche poco più di un conoscente, probabilmente non gli avrebbe nemmeno fatto quella proposta. Ma aveva giocato con lui tante partite (perdendole quasi tutte) e quando giochi tanto con una persona la conosci anche nella sua intimità, è strano ma è così. Un proverbio russo dice: “Si impara a conoscere bene la gente viaggiandoci insieme e giocandoci a scacchi.”

Insomma, Roberto considerava Luca un amico.

«Senti io non vivo in una reggia, sto in un monovano in affitto ma puoi venire a stare da me finché non ti sistemi, ho un divano abbastanza comodo, sarà sempre meglio che dormire in strada. »

«Finché non mi sistemo ahah» rise Luca «Sono già sistemato.»

Roberto scosse la testa. Gli sembrava davvero un peccato che un uomo con simili capacità si fosse ridotto ad un relitto.

«Perché non mi racconti tutto? Perché non mi racconti quello che ti è successo? Perché anziché giocare qua per il Whisky non sfrutti a pieno le tue potenzialità?»

«Be’ Robi» quando parlava in confidenza e smetteva di scherzare lo chiamava sempre Robi «a dire il vero non lo so. Ma c’è una frase che mi assilla, dovrebbe essere un proverbio dal poco che so. “Diventiamo grandi quando cominciamo a battere papà a scacchi. Diventiamo adulti il giorno che lo lasciamo vincere”»

Roberto che era un ottimo programmatore ma non conosceva nulla di psicologia fece la domanda che la maggior parte dei non addetti ai lavori avrebbe fatto in una simile circostanza.

«Vuoi parlarmi di tuo padre?»

«Va bene ma ho bisogno di un po’ di benzina.»

«Vieni a casa, ho un mappamondo pieno di superalcolici che tocco di rado, il più delle volte per Natale. Potrai farti anche una doccia e raderti se ti va. Ho della roba che ti dovrebbe stare.»

Luca era leggermente più alto di Roberto (cinque centimetri scarsi) il quale era però era un po’ più grasso quindi le taglie erano più o meno compatibili.

«Grazie Robi» si limitò a dire Luca. Desiderava davvero farsi una doccia calda e radersi.

L’acqua scendeva calda e avvolgeva il suo corpo. Lo faceva sentire al sicuro. Era una sensazione quasi ancestrale. Si sentiva come nel ventre materno. Assunse la posizione fetale in maniera del tutto inconscia, sentendosi ancora più protetto. Fu un piacere cospargersi di sapone il corpo e con lo shampoo la lunga barba e i capelli sostituendo quel particolare olezzo che stava diventando sgradevole persino a lui con le fragranze del sapone di Marsiglia e dello shampoo alla menta e olio di cedro. Fuori dalla doccia, infilato l’accappatoio gentilmente offerto da Roberto, si guardò allo specchio tirò la barba e si sorprese nel cogliere, da un lato, un principio di canizie. I capelli invece erano tutti ancora perfettamente neri. Sorrise e decise che pur essendo un barbone avrebbe rasato quella barba. In fondo, non gli erano mai piaciute le etichette.

Uscito dal bagno sembrava ringiovanito e Roberto sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. Aveva preparato la tavola rotonda per la cena. Entrambi erano piuttosto affamati anche se Luca tendeva a nasconderlo per non sembrare essere maleducato. In effetti nella sua vita da senzatetto – che durava ormai da quasi dieci anni – i pasti abbondanti alla mensa dei poveri erano stati una rarità, si contavano sulle dita di due mani , ed erano principalmente in occasione del Natale.

Luca aveva l’acquolina in bocca e quando chiese:

«Cosa stai preparando?» cercò invano di chiederlo con nonchalance.

«Spaghetti ai ricci e per secondo orata alla griglia, e ho preso anche del buon vino bianco.»

Luca, che non mangiava pesce da quando abitava ancora a casa dei suoi genitori (sì alla mensa dei poveri andavano proprio al risparmio), rischiò che la bava gli uscisse dalla bocca, proprio come potrebbe capitare ad un cane.

Roberto notò che Luca era – per usare un eufemismo – affamato, rise sotto i baffi (che non aveva) e si limitò a dire:

«Dai dai siediti, la pasta è quasi pronta.»

Alla fine della cena erano entrambi sazi e Luca era anche felice. Ora stava sorseggiando del Jack Daniel’s da un bicchiere anziché da una bottiglia (per la prima volta in vita sua). In quello stato gli venne molto naturale raccontare.

«Giocai solo una volta con lui. La partita finì patta ma lui ebbe da ridire sulla mia condotta di gioco. A me sembrò di aver rispettato tutte le regole che ci eravamo prefissati, ma sai a volte il giudizio di un padre può essere pesante anche se non obiettivo. In fondo avevo solo dodici anni. A papà non andava mai di perdere e nemmeno di pareggiare con un moccioso. Sai, nemmeno a me piace perdere anzi è comunemente accettato che a nessuno piaccia perdere. Però diciamo che ci sono i così detti buoni perdenti e gli altri. Papà apparteneva a quest’ultima categoria. E infatti tendenzialmente non giocava mai. Proprio perché anche solo l’idea di poter perdere gli era indigesta. Quell’unica volta che giocò con me la ricordo ancora oggi. Mi impegnai al massimo e riuscii a pareggiare, forse anche grazie ad un po’ di fortuna, sai la famosa fortuna dei principianti. Ero felice e mi stavo per complimentare e ringraziarlo per la bella partita. Mi aspettavo che anche lui lo fosse. Ma quando incrociai il suo sguardo, un attimo dopo aver sferrato quell’attacco doppio col cavallo che mi avrebbe garantito la patta, mi accorsi che non era così. Ci stava. Quello che non ci stava secondo me è che recriminasse su una regola (il tempo per le mosse) che lui stesso aveva stabilito con me. Non volle mai più giocare con me e il suo dire “Sono stanco, vinceresti tu” mi feriva. Quindi ogni tanto mi ritorna in mente quel proverbio Diventiamo grandi quando cominciamo a battere papà a scacchi. Diventiamo adulti il giorno che lo lasciamo vincere.

Ora credo di aver capito. Luca sembrò illuminato.

Quando penso a questo proverbio dico che io non sono mai riuscito a diventare ne grande ne adulto perché ho giocato solo una volta con papà e non ho ne vinto ne perso. E forse questo conflitto irrisolto ha limitato la mia crescita umana. Comunque, anche se papà non giocava, non abbandonai certo il gioco. Giocavo su internet prevalentemente. Mi vergognavo di cercare un circolo ed amici con cui giocare. Giocavo quasi sempre partite veloci. Credo perché la mia principale colpa in quella partita con papà fu di essere troppo lento. Gli scacchi diventarono ad un certo punto una vera e propria ossessione. In terza e in quarta superiore presi tre debiti tante erano le ore che passavo dietro lo schermo del pc. Mamma ovviamente si preoccupava e cercò di capire cosa non andava in me. Ma siccome non venni mai bocciato…diciamo che rientrava tutto nella normalità. Non partecipai mai a competizioni ufficiali. Giocai solo su internet e dopo al parco per racimolare qualche spicciolo. I problemi veri arrivarono dopo il diploma. La maturità scientifica non consentiva di ottenere un impiego quindi ero obbligato ad andare all’università. Ma probabilmente non si trattava di un vero obbligo perché non mi iscrissi ad alcuna facoltà e passai ancora più tempo a giocare a scacchi online. A mio padre questa situazione non piacque per niente e fu a quel punto che intervenne. A casa sua o si studiava o si lavorava non si poteva permettere di mantenere un bamboccio che passa il tempo a giocare su internet a non sa cosa. Quindi da quel giorno mi avrebbe addebitato tutte le spese: luce, alimenti, affitto. Così sarei stato obbligato a trovarmi un lavoro. A nulla valsero le preghiere di mia madre che gli chiedeva di pazientare. Da questo avrai anche capito che a mio padre non importava molto il parere di mia mamma quando si trattava di prendere determinate scelte. Comunque, anche quell’obbligo non era un vero obbligo. E dopo un paio di mesi me ne andai, levando il disturbo. Questo avvenne circa dieci anni fa e dal giorno ho un po’ vagabondato di città in città cercando di sfruttare gli scacchi per guadagnare qualcosa. Questa è la città in cui mi son fermato per più tempo e in cui ho fatto a tempo a stringere amicizia con te, Juri e Timoteo.»

Roberto aveva ascoltato con attenzione ma non si sentì di dire nulla. Nemmeno i commenti ovvi del tipo “che sfortuna”, “che padre severo (stronzo) che hai avuto”, “devi lasciarti tutto alle spalle” sembrava potessero migliorare la situazione. Luca buttò giù l’ultimo sorso di Jack Daniel’s (stranamente aveva bevuto meno del solito quella sera) e dichiarò di essere stanco.

Così andarono a dormire. Luca dormì profondamente. Si sentiva leggero.

Il giorno dopo Roberto doveva andare a lavoro. Fecero velocemente colazione insieme (un pasto che Luca aveva ormai quasi rimosso dalla sua esistenza) e poi uscirono insieme da casa. Roberto prese la macchina salutando Luca dal finestrino mentre quest’ultimo si diresse a piedi verso il parco che si trovava a poche centinaia di metri dall’abitazione di Roberto.

L’aria era fresca ma non troppo e innaffiatori automatici regalavano dei simpatici arcobaleni che si ergevano sull’erba del parco. Prese posto sul solito tavolo, quello in marmo con la scacchiera disegnata sopra e ci piazzò sopra i pezzi. Il parco, a quell’ora del mattino, era piuttosto deserto e nessuno sfidante sembrava affacciarsi al tavolo. Per ingannare il tempo, prese il libro di Bukowski e riprese da dove lo aveva lasciato. Più leggeva e più gli sembrava di avere qualcosa in comune con il personaggio del libro. Gliene capitavano un po’ di tutti i colori, a ciclo, come in una specie di mantra. Si appisolò. Quando si svegliò riconobbe l’uomo di fronte a lui. Era invecchiato ma era lui. I capelli erano ormai tutti bianchi ma gli occhi sempre azzurri.

«Papà» fu l’unica cosa che riuscì a dire Luca, quasi inebetito.

«Luca figlio mio!» esclamò il padre scoppiando in un pianto a singhiozzi.

Lo abbracciò forte impotente di dominare le proprie emozioni.

«Ti va’ qualche partita?»

Luca, con le lacrime agli occhi, annuì.

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